Volevo scrivere con ancora indosso il vestitino blu svolazzante tutto stazzonato, i capelli profumati d’alloro, i tacchi ai piedi e il miracoloso eyeliner Chanel che avrebbe retto anche alle lacrime che non ci sono state, ma alle undici di sera del giorno più agognato della mia vita volevo solo vomitare dalla stanchezza.
Scrivo due giorni dopo, con l’adrenalina metabolizzata e la sensazione di limbo: non più studente, non ancora professionista. Dottoressa, a detta di tuttti; nè carne nè pesce per la legge. Stanchissima, dico io. “Stanca” è la banale, avvilente risposta ad ogni festoso “Come ci si sente?!” e mi scuso, non ne ho un’altra di riserva. Ieri ho dormito, nell’ordine: sul mio letto, sull’8, sul tavolo della stanza medici di reparto, appoggiata al muro in corridoio, sul 14, sul divano di Gaia, sul 6, sul tavolo in cucina e infine di nuovo sul mio letto.
Cosa raccontarvi del giorno del mio ultimo verbale? Cosa voglio che resti ai posteri?
La levataccia alle 5.30 per doccia, trucco, parrucco e ultime ripetizioni del powerpoint; quest’ultima cosa soppiantata infine da mezz’ora alla finestra con Beatrice ed Alessandra a contemplare il puntuale, classico acquazzone estivo dopo 2 mesi di siccità a Firenze che inizia proprio quando ci si stava infilando i sandali (ma ha smesso proprio prima che uscissimo di casa).
Lo sguardo riconoscente e sollevato di Andrea che da mesi rassegnato alla visione di me in mollette, t-shirt e ciabatte mi vede entrare in stanza dopo un restauro che neanche Giotto dopo il lavoro dell’Opificio; uno sguardo un po’ meno riconoscente mentre andava a lavarsi i denti in cucina perché avere accesso nell’unico bagno di casa la mattina della laurea di tre donne era fuori discussione.
Lo sguardo incredibile di mio padre e mia sorella che mi aspettavano alle 7.30 sotto casa.
Avrei immaginato di dovermi vergognare molto di più davanti alla mia famiglia a causa di cartelloni e foto compromettenti, ma fortunatamente gli specializzandi erano quasi tutti al lavoro e la mia reputazione è stata salva... almeno finchè non ho stappato lo spumante. A mia discolpa va detto che era caldo, che ero digiuna dal giorno prima e avevo sete.
Le parole e lo sguardo del mio relatore, una bellissima sorpresa.
Gli abbracci.
L’abbraccio a mio padre dopo la proclamazione. Il momento che ho sempre sognato con il timore che non arrivasse mai (perchè dopo una vita così ho paura di sognare cose belle) bello come neanche nei miei sogni più audaci. Quello di mia sorella, abbracciare una me migliore e ancora più fiera e felice di me. Quello di Andrea, amore,speranza, futuro, cielo. Quello di Alessandro, fortezza. Quelli di chi era lì a rendere tutto vero, tangibile: Tuna, Paola, Ale, Federica, Chiara, Michi, Livio, zia, Tommy, Andre, Franz, Giacomone, Mary, Alice, Dario e tanti altri. Infine l’abbraccio vittorioso con le mie due guerriere a conclusione di tutto, luce viva.
Le risate felici del mio primario al telefono alle 12.13: “Capoooooo, 108, evvviva! Ora mi scusi ma sono già brilla, ci vediamo domani in reparto!”
Il pensiero di tutti quelli che non erano lì ma mi accompagnavano con il cuore, con gli innumerevoli messaggi a cui non ho risposto (ma sappiate che ad ognuno ho sorriso dal profondo del cuore) e con le preghiere.
Ho pensato a mia madre e a come sarebbe stata questa giornata con lei presente, ringraziandola per questo DNA che si avvolticciola a forma di caduceo che è anche merito e colpa sua.
E ho pensato ai miei pazienti, a quanto è importante per me vederli gattonare in giro, con i loro disegni, i loro progressi, le loro battaglie. E ho pensato che ciliegi del genere meritano una vita di amorevole giardinaggio.
La bottiglia che mi ha reso brilla prima di mezzogiorno brindava al momento della fioritura.
Questa laurea è per i fiori rosa che verranno.