Una sessantina d’ore fa l’aereo della Areolineas Argentinas colpiva seccamente la pista dell’aereoporto Leonardo Da Vinci con il carrello e scivolava sul suolo natìo, più o meno dolcemente a seconda di cosa ciascuno dei passeggeri si stava lasciando alle spalle. L’aereoplanino sul maxischermo di fronte alla corsia centrale lampeggiava insistentemente su Roma, dando la coda alla sottile linea rossa che lo teneva legato come un palloncino a Buenos Aires, mentre febbricitante raccattavo le mie cose sparse qui e là intorno al posto 33D e carica come un ciuchino mi lasciavo dietro le discretamente turbolente 20 ore di volo complessive, perché el hilo rojo, il filo vermiglio del mio palloncino a forma di Boeing 747 era ancorato a Santa Cruz e passava per Assunciòn. Lo stesso sole che per tutto lo scorso mese era stato un poncho di alpaca non riusciva nemmeno a far vacillare i brividi insistenti che mi correvano addosso: lasciato il palloncino dietro di me alle prese con rifornimenti e scarico bagagli, con una mano sola tentavo di chiudere la borsa guaranì stracolma e sistemare lo zaino sulle spalle.
Ma se c’è una cosa che avevo appena imparato è proprio quella di accettare i propri limiti, ed allora ho aperto la mano sinistra serrata su una corda di cui solo io conoscevo le dimensioni e ho lasciato finalmente andare il mio cuore dove avrei dovuto essere io in quel preciso istante, con la serena certezza di chi sa cosa sta facendo perchè non era qui che quel cuore avrebbe potuto star bene, non era qui che serviva.
Con la mano destra ho tirato su velocemente la borsa dalle cuciture salde benché messe a dura prova, con la sinistra lo zaino e mi sono voltata prima di calpestare il marmo lucido degli Arrivi Internazionali per guardare la corda scomparire rapida all’orizzonte.
Dal finestrino della macchina osservavo distratta l’imbrunire trasformarsi in notte e le stelle far capolino dal velluto blu solcato da grossi nuvoloni minacciosi: piccole punture di spillo a stento visibili anche da chi, a differenza di me, non ha insolenti febbriciattole che gli fan copiosamente lacrimare gli occhi… La notte precendente ( o forse quella prima ancora? Questa volta il jet lag mi ha sconquassato il ritmo circadiano… ) avrei potuto vedere le galassie e la Croce del Sud anche se Ana, Juanita, Walter o Edwin mi avessero bendato con una sciarpa di lana, tanto il cielo della Bolivia è incastonato di grossi grezzi cristalli Swarovskj. Inoltre la sera prima c’era anche la luna piena, e sembrava ci fosse un enorme tendone di raso tinteggiato di un voluttuoso color indaco. E prima che la luna fosse piena sembrava il largo sorriso dei bambini, con la gobba rivolta verso il basso, come una culla sospesa sulla Cordillera…
Dicono che l’unico antidoto alla flebo di fiele sia un liquado di Dona Ines e una overdose di baci ed abbracci di cento bambini e ragazzi dal sorriso di madreperla, dalla pelle color cioccolata piena di punture, feritine, bruciature e terra e dagli occhi in cui si può annegare, che ridono come spero che miei eventuali figli rideranno, con gioia selvaggia e tutta la forza dei loro pochi difficili anni, che ti stritolano come cuccioli di boa e ti accalappiano il cuore che ho scoperto vuoto prima di loro, che scoppiano in lacrime di punto in bianco per le cose disperanti che gli tornano in mente del loro passato e che gli passano nello sguardo come nuvole, rannicchiati in un angolino da soli o più spesso la sera a letto, quando rimangono soli con i loro fantasmi, i loro mostri dai volti familiari, che ti si aggrappano a qualsiasi angolo di maglia o ciocca di capelli rimasta libera, che ti dicono candidamente che erano diversi mesi che nessuno li abbracciava tranne Madre Grazia, la suora francescana che si è votata a loro e che come una incredibile factotum ne combina più di loro e per loro fa carte false e per loro piange e per loro si inventa di tutto e di loro ha fatto una grande famiglia, che non ti lasciano mai sola e che ti rendono 8 ore di sonno insufficienti per stare in piedi, ma le 16 seguenti un bellissimo, faticosissimo, impagabile sogno ad occhi aperti, che mi hanno rivelato il senso che la vita ha di per sé e che una grossa fetta di quello su cui focalizzavo l’attenzione e che reputavo irrinunciabile-meraviglioso-inestimabile è in realtà una grande sega mentale, che hanno pianto perché andavo via ma che mi hanno spinto a farlo perché devo studiare duro, y que todo te vaya bien Laura y que Dios te bendiga y feliz viaje.
Ancora mi chiedo e ancora mi chiederò cosa faccio qui, nell’emisfero e nel continente sbagliati, sola davanti a uno schermo, quando so che l’unico posto dove dovrei essere è a giocare a basket a piedi nudi o a raccogliere papaya o a bagnarmi al Rio o a lasciarmi assalire da trenta contemporanee richieste gioiose, e provo a rispondermi che è questo il mio posto – bugiarda, bugiarda, bugiarda - e che ora devo portare qui il fuoco che i ninos mi hanno acceso dentro. Fuori dalla finestra sono le 2 di notte italiane, ma il mio fuso orario è a cena nel comidor di Camiri, il vento porta i miei baci e le mie carezze alle mie 98 Cruz del Sur che mi brillano negli occhi e che mi indicano il cammino giusto da percorrere, che sarà di certo intricato e ricco di circonvoluzioni, ma non ho bisogno di una mappa per sapere che tutte le strade mi riportano lì.
Ma se c’è una cosa che avevo appena imparato è proprio quella di accettare i propri limiti, ed allora ho aperto la mano sinistra serrata su una corda di cui solo io conoscevo le dimensioni e ho lasciato finalmente andare il mio cuore dove avrei dovuto essere io in quel preciso istante, con la serena certezza di chi sa cosa sta facendo perchè non era qui che quel cuore avrebbe potuto star bene, non era qui che serviva.
Con la mano destra ho tirato su velocemente la borsa dalle cuciture salde benché messe a dura prova, con la sinistra lo zaino e mi sono voltata prima di calpestare il marmo lucido degli Arrivi Internazionali per guardare la corda scomparire rapida all’orizzonte.
Dal finestrino della macchina osservavo distratta l’imbrunire trasformarsi in notte e le stelle far capolino dal velluto blu solcato da grossi nuvoloni minacciosi: piccole punture di spillo a stento visibili anche da chi, a differenza di me, non ha insolenti febbriciattole che gli fan copiosamente lacrimare gli occhi… La notte precendente ( o forse quella prima ancora? Questa volta il jet lag mi ha sconquassato il ritmo circadiano… ) avrei potuto vedere le galassie e la Croce del Sud anche se Ana, Juanita, Walter o Edwin mi avessero bendato con una sciarpa di lana, tanto il cielo della Bolivia è incastonato di grossi grezzi cristalli Swarovskj. Inoltre la sera prima c’era anche la luna piena, e sembrava ci fosse un enorme tendone di raso tinteggiato di un voluttuoso color indaco. E prima che la luna fosse piena sembrava il largo sorriso dei bambini, con la gobba rivolta verso il basso, come una culla sospesa sulla Cordillera…
Dicono che l’unico antidoto alla flebo di fiele sia un liquado di Dona Ines e una overdose di baci ed abbracci di cento bambini e ragazzi dal sorriso di madreperla, dalla pelle color cioccolata piena di punture, feritine, bruciature e terra e dagli occhi in cui si può annegare, che ridono come spero che miei eventuali figli rideranno, con gioia selvaggia e tutta la forza dei loro pochi difficili anni, che ti stritolano come cuccioli di boa e ti accalappiano il cuore che ho scoperto vuoto prima di loro, che scoppiano in lacrime di punto in bianco per le cose disperanti che gli tornano in mente del loro passato e che gli passano nello sguardo come nuvole, rannicchiati in un angolino da soli o più spesso la sera a letto, quando rimangono soli con i loro fantasmi, i loro mostri dai volti familiari, che ti si aggrappano a qualsiasi angolo di maglia o ciocca di capelli rimasta libera, che ti dicono candidamente che erano diversi mesi che nessuno li abbracciava tranne Madre Grazia, la suora francescana che si è votata a loro e che come una incredibile factotum ne combina più di loro e per loro fa carte false e per loro piange e per loro si inventa di tutto e di loro ha fatto una grande famiglia, che non ti lasciano mai sola e che ti rendono 8 ore di sonno insufficienti per stare in piedi, ma le 16 seguenti un bellissimo, faticosissimo, impagabile sogno ad occhi aperti, che mi hanno rivelato il senso che la vita ha di per sé e che una grossa fetta di quello su cui focalizzavo l’attenzione e che reputavo irrinunciabile-meraviglioso-inestimabile è in realtà una grande sega mentale, che hanno pianto perché andavo via ma che mi hanno spinto a farlo perché devo studiare duro, y que todo te vaya bien Laura y que Dios te bendiga y feliz viaje.
Ancora mi chiedo e ancora mi chiederò cosa faccio qui, nell’emisfero e nel continente sbagliati, sola davanti a uno schermo, quando so che l’unico posto dove dovrei essere è a giocare a basket a piedi nudi o a raccogliere papaya o a bagnarmi al Rio o a lasciarmi assalire da trenta contemporanee richieste gioiose, e provo a rispondermi che è questo il mio posto – bugiarda, bugiarda, bugiarda - e che ora devo portare qui il fuoco che i ninos mi hanno acceso dentro. Fuori dalla finestra sono le 2 di notte italiane, ma il mio fuso orario è a cena nel comidor di Camiri, il vento porta i miei baci e le mie carezze alle mie 98 Cruz del Sur che mi brillano negli occhi e che mi indicano il cammino giusto da percorrere, che sarà di certo intricato e ricco di circonvoluzioni, ma non ho bisogno di una mappa per sapere che tutte le strade mi riportano lì.
23 agosto 2005